Respirava la luce.

Questo ricordava di lei. Che respirava la luce.

Ogni mattina, quando la maggior parte del mondo si svegliava brontolando al suono di una sveglia troppo insistente, lei, al contrario, si svegliava contenta perché c’era luce.

In casa loro la luce entrava a fiotti; dalle finestre, dai lucernari, dai buchi della serratura, dagli spiragli delle porte, dai riflessi sugli specchi. Ovunque era un manto dorato che ricopriva e abbracciava ogni superficie. E lei ne respirava così tanta da irradiarne la metà poi. La infilava tutta nelle sue parole e nei suoi gesti, quando si rivolgeva agli altri o quando accudiva le piante o dava da mangiare al gatto.

Lei prendeva e restituiva, ogni secondo di ogni giorno. Non aveva mai tenuto qualcosa per sé, la sua vita era diventata uno scambio tra il fuori e il dentro e lei lo faceva senza alcuno sforzo, perché prendere troppo avrebbe significato rubare e non dare nulla avrebbe significato implodere.

Questo ricordava di lei. Che prendeva e dava luce.

E ne ricordava anche gli abbracci: erano sempre tiepidi, perché non si era mai sicuri che lo facesse per darli o per riceverli.

Quando faceva il caffè, la mattina, lo faceva mormorando canzoni stonate e assaporando l’aroma dei chicchi infranti. E respirava a pieni polmoni quelle pagliuzze che contro i raggi del sole appaiono come brillantini.

Le sue pantofole erano sempre nuove, perché non le usava mai, perché i piedi stavano più comodi senza niente addosso, correvano meglio. La cosa strana, che aveva capito stando con lei, era che gli adulti smettono di correre; forse perché hanno le gambe più lunghe o forse perché hanno meno fretta di scoprire il mondo, o forse perché hanno paura.

Ma lei correva. Non per le strade, no, lei correva dalla cucina al salotto e dal salotto al bagno e dal bagno di nuovo in cucina e dalla cucina in camera da letto e poi frenava con una scivolata. Ecco perché non portava le pantofole. Lei voleva scivolare e rideva quando scivolava.

Questo ricordava di lei. Che rideva e scivolava e la casa diventava tutta d’oro e risuonava come di campanelli e il tempo non sembrava correre, sembrava che si fermasse a guardarla pure lui, a guardare quella creatura che respirava luce e non rispettava le regole del diventare grandi.

Quando ricordava tutto quello che riusciva a riportare alla mente era la patinatura d’oro e risate, tutto il resto l’aveva relegato in un cassetto ben chiuso. Non sapeva se quel che ricordava di lei fosse davvero reale, se fosse un sogno o il tentativo di abbellire un pezzo di vita ammuffito, ma non riusciva a fare a meno dell’oro e delle risate e della luce del sole che entrava da ogni dove a far da eco alle sue memorie, perché oltre a quelle ricordava solo un altro dettaglio.

Ricordava che ogni volta che litigavano fuori c’era la pioggia.