Abbiamo 7 orologi e mezzo nella nostra cucina.

Nessuno segna la stessa ora nello stesso momento. Nessuno è rotto. Tutti vengono regolarmente ricaricati non appena si fermano e tutti, ma dico tutti, mano a mano che venivano comprati o ci venivano regalati e venivano portati in cucina sono stati regolati per combaciare con gli altri.
Ma niente, non si riesce a tenerli fermi tutti alla stessa ora.

Quando poi ci siamo resi conto della cosa, capire quale tenere come riferimento è diventata una sfida. Quello più vecchio? È stato pure il primo a non segnare più l’ora locale.
Quello più nuovo? È quello che segna gli orari più strampalati.
Quello di legno della comunione del cugino di quarto grado o quello di plastica che fa da calamita sul frigo, memoria di una vacanza con i prozii? Quello con la statuetta della capretta tibetana che è la bomboniera delle nozze d’oro della sorella della cugina della prozia, da parte di mamma? Quello che ha regalato la zia di Como o quello che ci ha rifilato la nonna di Vicenza?
Troppe opzioni e troppe dinamiche affettivo-familiari a compromettere un precario equilibrio casalingo.
Abbiamo optato per una soluzione molto semplice: ora sappiamo leggere la posizione del sole e la rotazione degli astri, cosí siamo a cavallo.
Gli unici inconveniente sono la stagione delle piogge estive e i periodi delle sagre con le luci psichedeliche delle giostre. A quel punto casa nostra diventa un buco spazio temporale entro cui vaghiamo senza meta e senza relazione con la società esterna.

– Vieni a mangiare un gelato? Per le quattro, tipo? –
– Mmm, sí dai.-
….
– Camilla dove sei? Sono le quattro e tre quarti. –
– Ah sí, scusa, sai è che verso le tre e venticinque e tre secondi si è annuvolato un attimo e non c’erano più ombre. –
– Ma un orologio, no? –
– Ne ho sette e mezzo. –
– E quindi perché non li guardi?-
– È che non ricordo quale è quello con l’ora italiana. –
– E guardare il telefono?
– Eh, sai, stanno cambiando la fibra quindi niente internet. È impreciso, quando non c’è wifi. L’ombra dell’ulivo è molto meglio, quando raggiunge la terza mattonella del portico vuol dire che sono le quattro spaccate! È che ti ho detto, s’era annuvolato a tre quarti della prima mattonella…
– E hai tardato di 45 minuti?-
– Aspettavo che tornasse il sole!-

Il più vecchio orologio che abbiamo in cucina ha 22 anni. Due in meno di me. È quadrato e nero, con i numeri romani bianchi e tre lancette appuntite. È stato regalato a mia madre dall’azienda per cui lavora, per il ventesimo anniversario.
Quello l’ora giusta italiana proprio non l’ha mai segnata. È sempre stato avanti di 20 minuti.
– Cosí, – diceva mio padre, – penseremo di essere in ritardo e ci muoveremo. E saremo sempre in anticipo invece.-
Invece sappiamo tutti di questi trucchetto, quindi finiamo per essere sempre e comunque in ritardo.
Gli unici con cui funziona questa cosa dei 20 minuti sono gli ospiti. Finisce sempre che se ne vanno via all’improvviso correndo. A volte non diciamo la verità, facciamo loro credere di essere molto in ritardo, perché è divertente davvero vedere quanto la gente impazzisca dietro al tempo.
Allo scoccare del suo diciottesimo compleanno, l’orologio nero è diventato totalmente indipendente dal nostro controllo. Un giorno ci siamo accorti che non era più in anticipo di 20 minuti. Era in ritardo di 2 ore e 37 minuti. Maggiorenne e padrone di sè stesso non ha più voluto saperne di rientrare negli schemi della sua gioventù e noi l’abbiamo lasciato ai suoi sghiribizzi.

L’orologio con la capretta tibetana segna l’ora di Teheran.
A Teheran, in una galleria d’arte c’è una ragazza di nome Bahareh. Lei tutti i giorni, alle 10 puntuali arriva e si mette a setacciare una sottilissima polvere di marmo bianco, con un setaccio. La polvere la sistema tutta perfetta e liscia sulla superficie di un’opera d’arte di Bizhan Bassiri. Quando l’orologio con la capretta tibetana segna le 10.23 Bahareh ha finito con il setaccio e beve un caffé. Allora è quando inizia ad entrare gente nella galleria. Molti sono turisti, altri solo curiosi. Alcuni sono cani. Altri sono solo persone che devono usare il bagno. Il 95% delle creature respiranti che varcano la porta hanno una gran voglia di rendere inutile il lavoro che ogni mattina Bahareh fa tra le 10 e le 10.23. Cioè vogliono camminare sulla piattaforma cosparsa di polvere di marmo.
Ci provano quasi tutti. Ci provano perché la sabbia è stesa talmente bene ed è talmente bianca che la prima cosa che si prova, guardandola, è l’irrefrenabile voglia di lasciarci delle impronte. Bahareh, quando spiega il significato dell’opera dice tantissime cose, molto interessanti e molto filosofiche (lei è una che ne sa di queste cose), ma io ci scommetto il braccio destro che Bizhan, l’artista, se la stava ridendo di grosso, quando si è immaginato l’opera; se la rideva perché sapeva quanta voglia, quella polvere di marmo cosí liscia e bianca, avrebbe messo alla gente di lasciarci le impronte. E siccome l’artista Bahareh la conosce bene, se la rideva pensando: “che bello scherzetto, ma che bello davvero!”.
Bahareh è diventata molto brava a placcare la gente. Ormai lo sente nell’aria quando qualcuno se ne infischia dei cartelli e sta per appoggiare il piede sulla pedana immacolata. E allora Bahareh corre e si lancia che neanche i rugbisti australiani potrebbero vantarsi di essere così infallibili.
Quando l’orologio con la capretta tibetana segna le 18.00 l’opera di Bassiri è ancora salva e la galleria è chiusa.

L’orologio della prozia segna l’ora di Atlanta, ma ad Atlanta l’unica persona che conosco dorme per la maggior parte della giornata e della notte, perciò non succedono cose troppo interessanti. A parte nei suoi sogni. Sarah ha dei sogni vividissimi e molto dinamici, ma non me li racconta mai.
-Porta male! – dice.

L’orologio della nonna segna l’ora di Tonga, ma non sono troppo sicura se sia a destra o a sinistra della linea di cambio data, perciò le storie lí potrebbero essere sballate di un giorno intero. Quello sballato, più delle storie che potrei raccontare io, è Vea.
Vea che si diverte a saltare a destra e a sinistra della linea del cambio data urlando:
– Ora sono più vecchio! Ora sono più giovane! Io controllo il tempo! –
Lui l’ho conosciuto in California, che studiava lì pure lui, ma poi è tornato dalla sua famiglia. So che di solito fa questa cosa di saltare il tempo verso mezzanotte, quando è ubriaco abbastanza da non essere più il timido ragazzotto che ha quasi paura di presentarsi.
Quindi, quando l’orologio della nonna segna la mezzanotte, io so che Vea salta ed è felice.

L’orologio di legno della famosa comunione del cugino di quarto grado potrebbe potenzialmente segnare l’ora di qualunque città del mondo, ma lo fa solo dalle 3:51 alle 4:24. Una volta che le lancette segnano le 4.24, anziché andare avanti tornano indietro e ricominciano il giro dalle 3:51 e scattano solo per quei 33 minuti. Per chiunque segni il tempo quell’orologio, questa persona si ritrova a fare le stesse cose per 33 minuti da quattro anni a questa parte, in una specie di purgatorio terreno. Forse forse si tratta di una di quelle poche persone che mi sono state antipatiche, nella vita. E questo potrebbe essere il risultato di anni di malocchio.

L’orologio a cucù con la calamita appeso al frigo segna l’ora di Puerto Tejada, un paesino della Colombia.
Li ci vive Pablito, che non è Pablo, ma Pablito non perché sia giovane, ma perché ormai è talmente vecchio e raggrinzito che si è abbassato di almeno 30 centimetri rispetto a quand’era giovane.
Pablito della sua vita non ricorda troppe cose, solo che c’era meno traffico, l’aria sembrava più pulita, le pistole si inceppavano più spesso e che c’era un tale con il suo stesso nome che ad un certo punto era diventato tanto famoso per la cocaina.
Pablito, per un po’, aveva temuto che quello famoso per la cocaina fosse lui e si era spaventato non poco, perché come l’avrebbe spiegato a sua moglie?
Ma nessuno era mai venuto a cercarlo sul serio e poi, lui, Mama Coca, la mangiava solo masticando foglie. Mica era uno di quei drogati senza futuro lui. Volevo solo viversi la sua vita come la gente del suo paesino. E Maria non aveva mai saputo nulla e, se l’aveva saputo, aveva fatto finta di niente.
Quando l’orologio a cucù segna le 22.00 Pablito sputa l’ultima foglia di coca e raggiunge Maria in cucina. Si siedono al tavolo di legno sgangherato e cenano insieme, con la mani tremolanti, alla luce di una lampadina ancora più tremolante.

L’orologio di plastica nuovo ha segnato l’ora italiana per meno di 7 ore, poi è passato a Barcellona.
Ma chi può dargli torto? Barcellona credo sia più interessante di Padova, sotto certi punti di vista.
A Barcellona vive Guillem, un ragazzo molto gentile a cui piacciono molto i ventagli.

Il mezzo orologio che abbiamo è quello del forno. Una volta funzionava 24 ore su 24 ed era perciò un orologio completo. Ora si accende solo quando è acceso il forno.
Segna l’ora di Colchester, la più antica città romana d’Inghilterra.
Ogni giorno, a Colchester, un signore si nome Steve si sveglia, prende l’autobus numero 14A e si reca in centro presso un baretto di nome Cafe Rouge. Lí si siede sul tavolino tondo di fianco alla grande vetrata, tira fuori dei manoscritti e li legge. Dalle 9.34 alle 20.30 Steve sta seduto al tavolo e legge le storie di qualcun altro. Le corregge, le giudica e le sceglie. Poi le ripone nella sua cartellina di pelle, chiede il conto a Nick, il suo cameriere preferito, e riprende l’autobus numero 14A, direzione opposta, per tornare a casa e dormire.
L’orologio del forno però segna l’ora solo quando il forno è acceso, perciò io so cosa fa Steve solo quando mia mamma decide di preparare l’arrosto, le patate al forno o il branzino in cartoccio.

Nella nostra cucina abbiamo 7 orologi e mezzo. Non ne usiamo neanche uno per sapere che ore siano qui in Italia. In fondo, a che serve sapere che ore sono, quando ci sono cose molto più interessanti e quando il portico è pieno di mattonelle molto precise e fuori c’è il sole?