Pensavo a chi scrive.

E pensavo a chi legge.

Quella di chi scrive e chi legge è una storia in solitudine.

Chi scrive scrive perché non ha altro modo. Non ha scampo. Non ha appigli o mani a tirarlo.

E chi ha la pazienza di leggere rimane intrappolato in qualcosa di grosso, come un muscolo paralizzato da un crampo, in un buco profondo dove nessun altro può arrivare.

Chi scrive la maggior parte delle volte non è troppo soddisfatto. O non scriverebbe. Se ne andrebbe al parco, piuttosto. Se ne andrebbe al pub, al circolo, in palestra, al cinema o al coro della chiesa, ma quel che è certo è che non si chiuderebbe in una stanza semibuia a pigiare tasti scassati o a spremere cannucce piene d’inchiostro, odiando qualunque forma di interruzione si frapponga fra se e la sua personale rivisitazione dell’intera esistenza. Perché è questo in fondo quello che fa chi scrive: corregge.

Chi legge si ritrova invischiato in qualcosa che sembra venire da qualcun altro e che invece viene proprio da dentro e ci si ritrova perché ci si trascura non poco, dentro, e dunque tutto si fa più sporco e appiccicoso e appena ci si rimette piede si rimane incollati con il presentimento di aver omesso di pulire la propria coscienza che si sparge sul capo come polvere da un controsoffitto in procinto di cadere.

 

Sembra quasi di essere in due, in quel posto u po’ strano che è la nostra mente, ma si è da soli in fondo e non ci si ritrova che a storia conclusa, quando chi scrive ha dato e chi legge ha preso. Ma ci si ritrova sempre per poco più di un’illusione, perché non sempre chi legge capisce chi scrive.

 

Pensavo a chi scrive.
E pensavo a chi legge.

Perché è una tremula storia che nasce sognando di stringere mani che poi si lascia alle spalle accarezzandole appena.